La
Grande Guerra di latta
La Grande Guerra raccontata dalle scatolette, ovvero dagli alimenti
consumati dai soldati nelle trincee. Alimenti il cui sapore era spesso
mescolato all’adrenalina per un attacco imminente e all’odore della polvere da
sparo che, a ondate, copriva la puzza dei cadaveri in putrefazione poco oltre
la linea di reticolati.
Allo scoppio del
conflitto le industrie per la conservazione degli alimenti trovarono nelle
forniture militari terreno fertile per incrementare la produzione. Oggi i
collezionisti si contendono questi “resti”, scambiandosi i pezzi mancanti
e cercando di completare un puzzle complesso, fatto di varianti e colorazioni
diverse.
«La grande guerra
di latta» è anche un libro che ci
riporta al quotidiano della vita dei soldati italiani impegnati su 600
chilometri di fronte nel periodo 1915/18. Ci riporta
alle loro sofferenze attraverso un’ottica insolita, non quella dell’eroe che si sacrifica per la Patria ma dell’uomo che
affida la sua sopravvivenza a quelle coloratissime scatole di latta, contenenti
pesce o carne. Ma anche burro o prosciutto, dadi per il brodo o mortadella. Lo hanno scritto a quattro mani Giovanni Dalle
Fusine, giornalista
e scrittore (nonchè dirigente del
Museo della Grande guerra di Canove, sull’Altopiano di Asiago), e Gianluigi Demenego, cuoco ed escursionista. Per anni
hanno raccolto reperti nelle zone di guerra, hanno fatto certosine ricerche
d’archivio e poi con passione hanno ricomposto il mosaico. Il risultato non è
solo una raccolta di cimeli, ma una rappresentazione insolita della guerra. Fa
notare Patrizia Stano della Rizzoli Emanuelli Spa, azienda di Parma che
ancora oggi produce le alici in salsa piccante che venivano distribuite ai
soldati italiani (stessa ricetta, stessa scatola): «Nessuna foto d’epoca ci potrà mostrare i colori percepiti dagli
eserciti durante la Grande Guerra, paradossalmente riesce nell’impresa un
modesto barattolo strappato al campo di battaglia».
Ai soldati italiani nel corso del conflitto furono distribuite qualcosa
come 200 milioni di scatolette.
Contenevano 220 grammi di tonno o di carne ciascuna, ma potevano essere
consumate soltanto dopo il nulla osta superiore, ovvero quando mancava il
rancio caldo prodotto dalle cucine da campo. Le razioni alimentari dovevano
assicurare al soldato circa 4.350 kcalorie, ma alla fine del 1916 la razione
venne ridotta e il morale della truppa ne risentì. La disfatta di Caporetto era
alle porte, preceduta dalle sanguinose battaglie sull’Isonzo. Sul fronte del
Piave a rivitalizzare l’animo dei soldati contribuì anche l’aumento della
quantità di cibo distribuita. Ancora oggi non è raro trovare nei luoghi dei
combattimenti della scatolette arrugginite aperte dai soldati prima della battaglia. Alcune però hanno miracolosamente conservato i
propri colori, mostrando la pregevole grafica dei marchi. Alcuni storici come
la Cirio o la Bertolli. C’erano prodotti etichettati con nomi
patriottici “Antipasto finissimo Trento e Trieste” o “Alici alla Garibaldi”,
“Filetti Savoia”, “Antipasto Tripoli”. La bandiera italiana compare spesso.
La razione
alimentare distribuita ai kaiserjager autroungarici durante la guerra era
inferiore a quella dei colleghi italiani (200 grammi di carne in brodo), tanto
che per rimpinguare la dotazione il governo imperiale dovette importare
scatolame dalla Norvegia. Ma le sorti del conflitto erano già segnate.
Infine non va
dimenticato l’aiuto delle famiglie dei militari al fronte, tra l’altro
incentivato dal Governo con l’istituzione delle Madrine di guerra. I congiunti
spesso inviavano per posta ai propri cari indumenti e lettere, ma pure
alimentari con cui la truppa rimpinguava la scarsa fornitura di cibo delle
corvee alle prime linee. Barattoli prodotti dal mercato privato e civile si
mescolavano quindi alle forniture militari (fonte: La Tribuna di Treviso,
20 gennaio 2014).
L’ora
del rancio
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